Umberto detto Batista, nasce da antica stirpe sunese, ultimo di nove fratelli. Il padre, Giovanni Battista, è tornitore alle officine Züst di Selasca, la madre, Maria Ferrari, lavandaia e poi, dopo la morte del marito, portinaia a Villa Petri. Fin dall’infanzia dimostrò una memoria a dir poco prodigiosa, dote innata che gli permise di vincere il premio nazionale di dottrina ed essere ricevuto da papa Pio XI (1). Si narra che ogni domenica la madre per assicurarsi che fosse andato a messa gli chiedesse: «Che cosa ha detto il parroco?», e lui immancabilmente le ripetesse parola per parola tutta la predica. Non compì studi regolari, o meglio si fermò alle prime classi delle elementari a causa di un maestro – così raccontava lui, grande affabulatore – che un bel giorno iniziò ad interrogare gli allievi in ordine alfabetico invertito, cioè partendo dalla zeta di Zucchinetti, non permettendogli così di imparare la lezione ascoltandola dai suoi compagni, cosa che fino ad allora aveva sempre fatto con ottimi risultati. Il racconto, reso appassionante da una ricca ambientazione e da continui riferimenti alla didattica del tempo (astine da disegnare, tabelline da ripetere in senso contrario), terminava con l’esibizione di una vecchia cicatrice che gli segnava la testa: indelebile ricordo dell’ira del maestro contro il giovane scolaro svogliato. Molto probabilmente abbandonò i banchi di scuola dopo pochi anni a causa delle ristrettezze economiche in cui era caduta la sua famiglia a seguito della prematura morte del padre. Ormai adulto, seguendo passo passo gli studi classici della nipote Maria Teresa imparò il latino, i rudimenti del greco e dell’ebraico (quest’ultima lingua affrontata completamente da autodidatta). Si appassionò all’arte e alla letteratura, spaziando da Michelangelo a Medardo Rosso, da Dante a Trilussa. Non si sposò mai, forse per seguire l’affrettato consiglio del professor Emil Kraepelin,(2) di cui era amico, il quale vedendo in lui una vena di originalità fin troppo marcata lo dissuase a metter su famiglia. Di professione falegname (legnamé), inizialmente lavorò nella bottega del fratello Giovanni (Giuanin) – a Pallanza in Via alla Selva - poi alla morte di questi (1958) abbandonò la ripetitiva costruzione di persiane e casse da morto, per dedicarsi al restauro dei mobili antichi: ribaltine, cassepanche, fratini, piccoli e grandi capolavori dell’arte del legno che aveva iniziato ad ammirare, amare e studiare frequentando le ricche ville della Castagnola, prima fra tutte Villa San Remigio a quel tempo abitata dalla contessa Bonacossa. Nel giro di pochi anni si fece la fama di esperto antiquario e talentuoso restauratore, o come amava definirsi, stipettaio.(3) Nella nuova bottega di Via Guglielmazzi (ultimo acquisto del fratello) passava intere giornate a restaurare manufatti antichi con perfetti rattoppi in legno d’epoca ricavati da inservibili (agli occhi dei profani) pezzi di mobile trovati dal Ruga, il rigattiere di Pallanza; oppure “falsi” perfetti, usando tecniche antiche con strumenti moderni. Chi entrava nella sua bottega - camminando su una spessa coltre di trucioli che ricopriva l’intero pavimento - non poteva non notare a scaldare sulla stufa una “sbrodolante” pentola di colla di pesce; oppure fogli sottilissimi di essenze diverse (per colore e durezza) stretti ad asciugare nei morsetti, utili una volta tagliati a fette per i variegati intarsi di cui era maestro; così come i bianchi listelli, simili a bastoncini da ghiacciolo, che venivano leggermente anneriti sulla punta sagomata, affondandoli nella sabbia bollente contenuta in una grossa latta. E poi i bottiglioni di spirito per lucidare i mobili, la gommalacca, gli affilati scalpelli fatti con vecchie lime, e la “mitica” bindella con cui otteneva tagli precisissimi, non prima di aver seguito un buffo rituale che consisteva nel dondolarsi su un piede e poi sull’altro, per meglio simulare mentalmente il taglio da eseguire, e intanto prendere la mira chiudendo un occhio e stringendo la lingua tra i denti a lato della bocca. Come non ricordarsi del Batista chino sul tavolo da lavoro farsi luce la sera con un originale copricapo di sua invenzione, il fondo di una grossa confezione di Vinavil su cui aveva avvitato a mo’ di minatore una lampadina perfettamente funzionante. Oppure con un ferro da stiro caldo aprire “i pori del legno” perché assorbissero meglio il mordente, un colore a grani grossi che scioglieva in acqua. E poi le sue mani, grosse come badili, coperte da una crosta nera di gommalacca resistente ad ogni detergente. Animato da una profonda e schietta fede (quotidianamente andava a benedizione), rimase sempre legato ai riti, ai canti, alle processioni della sua giovinezza.(4) Cattolico tradizionalista, mal accettò la riforma liturgica introdotta dal Concilio Vaticano II. In quegli anni di grandi cambiamenti in seno alla Chiesa, tra lo stupore di molti, accettò dal parroco don Antonio Vandoni l’incaricato di smontare il piccolo pulpito di Santa Lucia per trasformarlo in un più “conciliare” leggio ambone. Portato a termine il lavoro e collocato il nuovo manufatto in chiesa confessò al parroco di aver nascosto all’interno dell’ambone una pergamena in cui criticava l’intervento “sacrilego” fatto; nello scritto dava voce al vecchio pulpito il quale si lamentava di essere stato trascinato dall’alto - lassù vicino agli angeli - giù fino a terra.(5) La sua religiosità era legata anche al culto dei santi, in special modo era devoto a santa Lûzia e al “sunese” beato Contardo Ferrini. Nel giugno del 1942, allorquando padre Agostino Gemelli contravvenendo alle ultime volontà dell’insigne giurista traslò la salma dal cimitero di Suna alla cappella dell’Università Cattolica di Milano, ideò dapprima il trafugamento della salma per impedirne la traslazione poi, fallito il “rapimento” della bara, orchestrò la protesta contro padre Gemelli giunto a Suna per benedire il trasporto.(6) Amico del generale Raffaele Cadorna di cui frequentava abitualmente la casa; monarchico da sempre, politicamente seguì le orme del cognato Aristide Bellentani, fu infatti tra i primi iscritti a Pallanza del Partito Popolare e non prese mai la tessera del Partito Nazionale Fascista, tanto che ogni qual volta giungeva in loco un gerarca o vi era una importante manifestazione del regime, le autorità gli “consigliavano” per quel giorno di cambiar aria e starsene lontano. Durante tutto il periodo fascista fu, insieme ai fratelli Giovanni e Antonio, una delle colonne portanti dell’Azione Cattolica sunese. Finita la seconda guerra mondiale aderì alla Democrazia Cristiana, distinguendosi come “agit prop” dei comitati civici dell’amico Luigi Gedda, tanto da essere notato da Giulio Pastore che gli propose di seguirlo a Roma come suo collaboratore. Naturalmente rifiutò e così anni dopo Pastore, diventato nel frattempo ministro, passando per Suna in automobile lo apostrofò pubblicamente con l’epiteto di “fellone” per la mancanza di coraggio dimostrata nel non averlo seguito nell’avventura capitolina, o forse “minchione” per la grossa occasione che secondo lui aveva perso. Fu amico di numerosi artisti locali:(7) Carlo Manini, Enrico Natale Cotti, e soprattutto del pittore Mario Tozzi(8) con il quale amava disquisire non solamente di arte, ma anche di filosofia e teologia. Una notte, per rendere giustizia all’amico Mario che, dopo aver progettato il monumento ai caduti di Suna, se l’era visto svilire con la posa di una lanterna in ferro battuto appesa al centro dell’arco, pensò bene di farla sparire buttandola nel lago. Tutto questo avvenne all’insaputa di tutti, o quasi; ancor oggi a Suna molti sono ancora convinti che la lanterna, durante un forte temporale, sia stata divelta dal turbinare del vento che la fece precipitar tra i flutti. Dai fondali del lago recuperò invece la fontana a forma di drago che ornava i giardini della ex Villa Cavalieri a Suna. Negli anni Sessanta, durante la costruzione della variante cittadina (attuale Corso Nazioni Unite), parte del parco di proprietà della famiglia del famoso matematico andò distrutta e i materiali di scarto, come si era soliti fare, gettati nel lago.(9) La costruzione di questa ampia strada portò anche alla distruzione di una serie di edicole votive che segnavano l’antico tracciato viario che dal centro abitato di Suna portava al piccolo cimitero a ridosso del Monte Rosso. Anche in questo frangente il Batista si adoperò per salvare il salvabile, in anni in cui sull’onda del boom economico tutto ciò che era “vecchio” era considerato da buttare e da sostituire. Usando l’antica tecnica dello “strappo”, riuscì a staccare da una di queste cappelle destinate all’abbattimento un affresco che poi ricollocò intatto sulla tomba della famiglia Corberi.(10) Generoso,(11) disponibile con tutti, lavorò in bottega fin oltre gli ottant’anni. A novant’anni compiuti, quotidianamente si incamminava verso la chiesa della Madonna di Campagna per partecipare alla serale benedizione durante la quale era solito leggere le Letture. Al saluto dei tanti che lo incontravano per strada rispondeva sempre con il suo immancabile e beneaugurante alegher fioi. Poi il lento declino fisico e mentale (alla faccia del Kraepelin!!). A quasi 99 anni, testimone di un intero secolo, chiudeva per sempre gli occhi in una casa di riposo di Verbania.
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(1) Al Papa che ricevendolo confondeva il suo paese natale Suna con Suno disse: «No sua Emminenza, si sta sbagliando». (2) Neuropsichiatra tedesco (1856-1926), proprietario della Villa Buon Rimedio in località Riviera di Suna. (3) Pur tuttavia qualche volta accettò di realizzare anche lavori di falegnameria che esulavano dall'antiquariato, l'importante che sollericassero il suo estro artistico, contrariamente si schermiva con modestia dicendo che l'era mia bun. Tra questi lavori ricordiamo un modellino in legno della costruenda cappella funebre della famiglia Corberi, commissionatogli dal capomastro Mainini; una macchina in legno, scala 1:1, richiestagli da mister Henry R. Cocker, direttore dei giardini dell'attuale Villa Taranto. (4) La comunità di Suna era solita il 3 maggio, festa della Santa Croce, recarsi processionalmente fino al piccolo oratorio posto sulla cima del Monte Rosso, comunemente detto pellegrino. Nei primi anni Cinquanta il Batista percorse l'intera salita (circa 400 metri di dislivello) con legato sulla schiena il pianale di un tavolo frattino, suo dono per abbellire la chiesetta. (5) Occultò anche un'altra pergamena all'interno della copertura a tabernacolo del fonte battesimale della collegiata di San Leonardo in Pallanza, in occasione del suo restauro avvenuto circa all'inizio degli anni Settanta. Nel suo scritto dava voce all'angelo tedoforo (poi rubato) che era posto alla sommità della cuspide di copertura, il quale si lamentava di reggere una torcia spenta. Probabilmente la protesta questa volta era rivolta al parroco che gli aveva impedito di restaurare la fiamma della torcia. (6) Così la nipote Miryam ricorda quell'episodio. Era il mattino del 23 giugno 1942; l'aria afosa, il cielo plumbeo. Molta gente si era raccolta nel piccolo e semplice cimitero di Suna. Appena padre Gemelli giunto da Milano in macchina mise piede sul sacro suolo, successe il finimondo: urla, fischi, improperi a non finire. Il frate faticosamente riuscì a raggiungere il tavolo dov'era posata la bara, e appena vi giunse si accasciò sfinito e stordito suna una sedia. Ripresosi, iniziò la recita di un Pater Ave Gloria, ma gli fu impossibile subissato da un coro di proteste: «Ladroni, ladroni, ladroni... avete violato la volontà del Santo». Poi improvvisamente il silenzio e la voce alta e chiara del Battista: «Il nostro desiderio è che Contardo Ferrini rimanga a Suna», immediatamente seguita da un nutritissimo coro: «A Suna, a Suna, a Suna». Per ben tre volte padre Gemelli tentò di iniziare la recita dei famosi Pater Ave Gloria, ma altrettante volte dovette smettere impedito dal ripetersi delle grida di protesta. A questo punto intervennero i carabinieri i quali si avvicinarono al Battista e gli intimarono il silenzio permettendo così a padre Gemelli di pregare. Conclusasi la breve cerimonia, vedendo la bara lasciare per sempre Suna a bordo di un furgone, il Battista lanciò il suo ultimo disperato grido: «Battetegli la testa!», naturalmente all'indirizzo di padre Gemelli. Poi tutti si avviarono brontolando alle loro case e, come avviene per le umane vicende, il tempo ammansì e cancellò ogni faziosità. Nell'aprile del 1947 il cuore del Beato fece ritorno a Suna, dove tuttora è conservato e venerato. A tal proposito vedasi anche F. GUERRINI, Contardo Ferrini (1859-1902), in «Verbanus» 4-1983, p. 249. (7) Alla fine degli anni Settanta ebbe anche contatti di lavoro con il critico d'arte e drammaturgo Giovanni Testori. (8) Riguardo all'amicizia con il pittore Tozzi si veda A. MORANDO, Mario Tozzi a Suna, in «Verbanus» 1-1979, p. 103; A. TOZZI, Ricordando Mario, in «Verbanus» 4-1983, p. 52. Battista nel 1971 insieme al nipote Gregorio organizzò la fuga a Parigi del pittore, stanco delle continue e oscure minacce telefoniche di estorsione. (9) Si veda P. MONTI, Fra Bonaventura Cavalieri (1858-1647), in «Verbanus» 11-1980, pp. 310-311. (10) Salvò dalla discarica anche gli ornamenti della Società Operaia di Suna, a suo dire opera del Galli. (11) Contribuì finanziariamente ai restauri della Cappella delle Grazie nella chiesa della Madonna di Campagna. Inoltre, a questa parrocchia, che sempre considerò appartenente a Suna, donò anche il quadro "La deposizione del Cristo" opera di Mario Tozzi, oltre a un imponente mobile che ora funge da archivio parrocchiale. |