Si tratta dell’opuscolo, stampato a cura di don Ottavio Paronzini, nativo di Montegrino e parroco di S. Pietro di Abbiategrasso, con cui si proponeva di favorire lo sviluppo economico del paese di origine, con lo scopo anche di contrastare l’emigrazione verso paesi stranieri. L’esperienza di don Ottavio Paronzini durò dal 1913 al 1924; dopo questa data, il complesso di terreni da lui presi in affitto passò alla “Cooperativa Alpeggio”. Diamo di seguito il testo, avvertendo che quelli che possono sembrare errori non sono in realtà tali, ma forme tipiche dell’italiano d’inizio secolo. Ringraziamo i signori Giulio Moroni, per aver gentilmente messo a disposizione il testo dell’opuscolo (O. PARONZINI, La trasformazione del monte “Bedroni”, Vigevano, Tipografia e Libreria Pio Istituto dei Derelitti, 1914).
LA TRASFORMAZIONE DEL MONTE “BEDRONI” Il motivo A Montegrino sul Lago Maggiore, come in moltissimi paesi della provincia comasca, è invalsa da tempo la consuetudine della emigrazione temporanea, specialmente nella Svizzera, Francia e Germania. Un tale fatto, se da una parte è considerevolmente vantaggioso pel denaro, che dall’estero s’introduce in patria, dall’altra è certo un gravissimo danno morale, per la innegabile corruzione del costumi di cui è causa. Padri di famiglia che per circa 7 mesi lasciano la propria casa, giovani che per altrettanto tempo dimorano in paese straniero senza guida, è troppo facile diventino preda del generate pervertimento. Ed i fatti lo provano duramente. Per non parlare del casi, per fortuna non troppo frequenti, di uomini che lontano si formano una seconda famiglia, quanti giovani per anni e anni non si fanno più vivi ai loro vecchi e bisognosi genitori o ritornano alle loro case con un piccolo gruzzolo di denaro, ma anche con un enorme bagaglio di idee sovversive, socialisti e magari nichilisti furibondi, rovinati di anima e di corpo! Eppure mentre Gaetano Negri asseriva che la proprietà quanto più è piccola, tanto meglio avvince il cuore e difende dal socialismo a Montegrino sono quasi tutti piccoli proprietari. Fu coll’intendimento di concorrere in parte a diminuire tal piaga nel mio paese nativo, che volsi l’animo alla trasformazione del monte delle Betulle, comunemente chiamato “i Bedroni”. Pensai. Perché tutti gli anni tanti miei compatrioti devono lasciare la loro famiglia e mangiare il duro pane straniero? perché le nostre terre, pur abbastanza fertili, devono essere coltivate solo dai vecchi e dalle donne? perché i nostri monti devono restare sempre deserti e quasi infruttuosi? E osservai. Alla Svizzera vicina, come potei personalmente rilevare nel duplice viaggio compiuto attraverso di essa, il pascolo e l’allevamento sono sorgenti di lauti guadagni; il nostro governo dà forti incoraggiamenti e premi agli allevatori; enorme è la ricerca di tori e bovine, di buona razza. Orbene la Provvidenza ha dato a Montegrino un tesoro finora nascosto, l'estesissima sua montagna, un vero Eden prealpino. Innumerevoli sorgenti d'acqua e più d’un metro di terreno coltivabile la rendono straordinariamente fertile, una completa assenza di burroni la fanno assolutamente sicura, l'accesso dovunque comodissimo, facile il percorrerla in ogni senso. E tanta abbondanza è di proprietà del Comune, e tutti i cittadini hanno diritto al libero pascolo. Di maniera che ogni famiglia potrebbe allevare sul fondo comunale per circa 7 mesi all’anno 2 o 3 vitelli di buona razza e rivenderli poi con tale guadagno, che il lavoro all’estero di altrettanti mesi non potrebbe certo eguagliarlo. E così in breve giro d'anni si potrebbe, usando buoni riproduttori, fare di Montegrino una piccola Schwyz lombarda.
All’opera Riflettendo però che assai difficile sarebbe rompere la corrente migratoria e l'abitudine inveterata di trascurare i fondi per gli stabilimenti, se l'evidenza dei fatti non venisse in aiuto, pensai di seguire l'esempio del Divin Maestro, che incominciò prima a fare, poi a insegnare. Esposi dapprima il mio progetto di prendere in affitto parte della montagna comunale all’egregio sig. Sindaco, Luigi Pontevia, da poco creato cavaliere in occasione dell’erezione d’un monumento al nostro illustre concittadino, il pittore Giovanni Carnovali, detto il Piccio. Uomo intelligente egli intuì subito il gran bene, che ne poteva derivare al paese e l’approvò caldamente. Allora non trovando esempi né in libri né in giornali agricoli di simili contratti, dovetti lungamente lambicarmi il cervello per stenderne il modulo. Base della locazione è il pagamento al Comune di L. 500 annue, l’impianto ogni anno dalle 3 alle 5 mila piantine, fornite sul posto dai vivai governativi gratuitamente; la cessione senza compenso al Comune, scaduto l’affitto, d’ogni fabbricato e manufatto. Il contratto dura 25 anni, è rescindibile ogni anno per parte del conduttore, che può anche subbaffittare e far uso del legname della montagna per qualunque costruzione. L’appezzamento preso in affitto comprende tutta all’ingiro la parte più alta della montagna, la cui vetta ai Bedroni, raggiunge i 1000 metri sul livello del mare, coll’estensione di circa 350 ettari, dei quali la metà almeno è senza piante e senza bosco. Onde meglio dirigere l’impresa, senza mancare ai miei doveri di Parroco a S. Pietro in Abbiategrasso, mi aggiunsi due soci. Ma ardui quasi sempre sono gl’inizi d’ogni impresa né pronti i guadagni: fui lasciato solo e ne sono ben contento per la completa libertà acquistata. In paese però per opera degli immancabili sobbillatori, nacque una fiera opposizione. Vi fu persino un cotale che scrisse alla Prefettura di Como prospettando il pericolo che io intendessi ricoverare sui Bedroni un convento di frati espulsi dalla Francia. Ma il Sindaco ed i consiglieri, con fermezza tanto più lodevole quanto più rara, seppero tener testa alle inconsulte proteste e dimostrazioni popolari; il contratto fu approvato dall’autorità tutoria il 18 Maggio 1911 ed il Dott. Reggiori lo fece registrare a Luino il 7 Giugno dello stesso anno.
I primi passi Fu prima mia cura incendiare una parte del pascolo, tutto orribilmente infestato da felci gigantesche, roveti, ginestre ed eriche, che lo ricoprivano letteralmente. Molte volte mi fu ripetuto che l’incendimento non giova a liberare un terreno dalle male erbe e piante. A me pare invece di dover distinguere dicendo: pretendere tal miglioramento unicamente dal fuoco è erroneo; pretenderlo dal fuoco, combinato con altre opere supplettorie è conforme a ragione, a pratica, a scienza. Quando non si trascurino le concimazioni, l’estirpazione degli arbusti e dei rovi, l’abbattimento ai primi di Giugno delle felci, la monticazione di numerose mandre, specialmente di pecore, è innegabile che l’azione del fuoco appiccato in tempo e giorno opportuno, ben guidato e custodito sarà sempre assai utile, anzi in molti casi necessaria, come nei terreni simili a quelli della montagna delle Betulle. Utile perché la fortissima quantità di cenere, che rimane sul terreno, contenendo circa 35 0γ0 di calce, la quale è riconosciuta indiscussamente come il concime più efficace dei terreni umosi, serve mirabilmente a modificarne la costituzione chimica, a scomporre la materia organica, a rendere assimilabile l’azoto, a saturare l’acidità, a diminuire la compatezza, a favorire l’assorbimento dei perfostati, a mettere in libertà la potassa. Senza contare poi l’altro importantissimo vantaggio di far scomparire definitivamente l’erica, i roveti e gli arbusti. Necessaria perché lo strato di 10, 15, 20 centimetri di felce secca e di erica impedisce all’erba di crescere ed alle bestie di brucarla, e perché sarebbe ingiusto pretendere il trasporto in montagna della enorme quantità di calce occorrente. Sui Bedroni il peggior nemico è la felce, che per avere profondissime radici, rinasce anche dopo il fuoco. Ma io non dubito punto che coi lavori sopra accennati e 4 o 5 incendimenti successivi si potrà aver ragione anche di essa. Sembrami infatti di poter fare questo ragionamento: la felce è una pianta selvatica, che per prosperare abbisogna di terreno selvatico; se noi miglioriamo il terreno colla calce, la felce dovrà naturalmente ritirarsi. Del resto anche il Bollettino dell’Istituto internazionale d’Agricoltura di Roma, mesi sono, annoverava l’incendimento come uno de’ mezzi più efficaci pel miglioramento de’ pascoli alpini. Finora tale operazione sull’intiero pascolo di Montegrino fu eseguita una volta sola. E l'effetto fu un visibilissimo aumento di erba, uno sviluppo più basso e rado delle felci, la scomparsa totale dell’erica e di molti rovi ed arbusti. Nell’ultimo parziale incendio del Marzo 1912 il fuoco sfuggito abbrucciò poche piante di bosco privato e comunale. Ma non fu mia la colpa, e forse il tempo più galantuomo degli uomini si incaricherà di rivelare i responsabili interessati. Basti dire per ora che il processo elevatomi cadde per inesistenza di reato; che il brigadiere delle guardie forestali di Cunardo, prima del suo rapporto incolpantemi, steso senza approfondire le ricerche, ebbe a dire “è impossibile che sia stato il prete”; che il Vice Ispettore di Varese sul posto, dopo pochi giorni, si manifestava convinto dell’assoluta mia innocenza; e dello stesso parere sono pure il Sindaco e quanti del paese conoscono uomini e cose. Del resto vidi io medesimo, sebbene non potei riconoscere per la lontananza, chi appiccava il fuoco. Ed è pure degno di nota che il fuoco fu appiccato al di sotto e fuori della zona della mia affittanza; in luogo quindi dove non poteva arrecare alcun vantaggio a me, ma solo ai confinanti, che sono tra i più furiosi avversari della mia impresa montana.
La strada d'accesso fu il secondo mio pensiero, poiché le strade sono le vene del commercio e della vita. La volevo carreggiabile, ma durante la mia assenza fu costruita solo mulattiera fino al principio dell’appezzamento concessomi in affitto, circa 3 chilometri. Da questo punto fino al luogo già scelto per la costruzione della casa e della stalla, io stesso con un solo giornaliero e in una sola giornata, tracciai colle paline quei due chilometri di ridente e comoda strada carrozzabile, che fu poi tosto praticata. Quindi misi mano alla fabbrica della Casa d'abitazione su disegno dell’ora defunto capomastro Pontevia Giuseppe, che mi fu sempre largo d’assistenza e di consiglio. Ed essa spuntò come un fungo solitario sul leggero pendio di una splendida conca, donde si guarda di fronte la Valganna col suo Poncione ed il suo laghetto; più a destra lo scoglio severo ove s’annida la Madonna del Monte con a fianco il Campo dei fiori; e sotto la Valcuvia colla sua vedetta ardita, il S. Martino. È a due piani e misura 5 x 8: l’ho battezzata: “Alpe del Risorgimento”. Avendo osservato poco più sopra una infossatura acquitrinosa, feci praticare degli scavi, che misero in luce una sorgente perenne di ottima acqua, che con un tubo interrato trasmisi fino dinnanzi alla tettoia, dove costruii un abbeveratoio provvisorio, lungo 8 metri. E simile a questo un altro ne costrussi in altra parte del pascolo. A pochi metri, spianato il terreno, edificai la tettoia pure provvisoria, in aspettativa della stalla, pel ricovero della mandra. È lunga 30 x 4; le colonne sono di legno; la copritura è di lamiera zincata, de’ quattro lati, tre sono difesi da un assito, uno da spranghe di legno. In Agosto su vasta porzione di pascolo feci abbattere le felci colla falce, ricavandone però scarso risultato, perché questa operazione, al dire dei pratici, dev’essere eseguita quando le felci sono alte appena 10 o 15 centimetri, ottenendosi allora di sottrarre gli umori vitali al rizoma, che muore. Anche ai primi di Giugno di quest’anno 1913 inclusi nel contratto per la monticazione di 400 pecore, l’abbattimento delle felci; ma i pastori che dimorarono sul monte 20 giorni non mantennero il patto. Feci pure eseguire l’estirpazione de’ roveti e degli sterpi abbrucciati nell’incendimento antecedente; operazione che trovo assai più facile che non sui roveti e sterpi ancora vitali. Su parte dell’appezzamento ove furono tagliate le felci, feci anche la concimazione chimica con 200 lire di perfosfato minerale ad alto titolo, fornitomi per metà gratuitamente dalla Cattedra Ambulante d’Agricoltura di Como. L’effetto tuttavia fu poco notevole; credo avrebbero agito di più le Scorie Thomas, per la calce che contengono. Ai primi di Luglio del 1911 come del 1912 si incominciò l’alpeggio, il primo anno con 84, il secondo con 106 capi bovini. Furono lieti gli inizi; le bestie erano piene di vigore e molto in carne; ma poi scoppiò l’ematurie o pisciasangue, nel primo anno dopo 50 giorni colla perdita di una sola manza olandese, nel secondo dopo un solo mese colla perdita di 6 manze, 5 nostrane e una olandese. Taluni autori attribuiscono la terribile malattia che mena strage in quasi tutti i monti alla ingestione delle felci secche; altri ad una mosca chiamata zecca; altri alla forte infiammazione prodotta dalla indigestione causata dalla estrema avidità colla quale le bovine della pianura nei primi giorni di monticazione brucano le gustose erbe del monte. Di questa ultima opinione fu pure l’egregio Dott. Cominotti della Scuola Veterinaria di Milano, che, da me chiamato, venne sull’alpe a studiar la malattia ed a prendere il sangue di una manza morta e di una infetta. Anche i fratelli Vittadini di Milano, distinti agricoltori e allevatori accettarono questa diagnosi. Nei primi anni che essi conducevano la loro splendida mandra alla monticazione sulla propria alpe della Valsassina, perdevano annualmente sempre 10, 15, 20 capi per ematurie. Dopo infinite prove, adottarono il sistema di limitare il tempo del pascolo, in maniera che ne’ primi giorni le bestie smettessero di mangiare con un po’ di fame e prolungando poi gradatamente l’orario fino a lasciarle mangiare a sazietà. L’assuefazione all’erba montana, diminuendone la morbosa appetizione, eliminò naturalmente il pericolo della esagerata ingestione colla conseguente indigestione, infiammazione ed emorragia. Così arrivarono ad impedire quasi completamente il fatale ripetersi dei casi di mortalità per ematurie. Allo scoppiare della malattia, io avevo esperimentato le limonate con bicarbonato di soda, suggeritemi dal valente veterinario tedesco di Luino Dott. Urlemann; avevo provato a gettar abbondante linosa negli abbeveratoi. Ma tutto era stato inutile e avevo dovuto scaricar l'alpe. È provato invece dalla pratica che le pecore non vanno soggette a questa infezione. Il Dott. Cominotti infatti, inoculato il siero del sangue di una bovina morta per ematurie a una vitella e a due pecore, ebbe morta la vitella e immuni le due pecore. Infine nel 1913 sulla proprietà comunale, non però nell’appezzamento affittatomi impiantai 6 mila piantine, 5 mila larici e mille castani innestati forniti gratuitamente dai vivai governativi. E l’impianto fu eseguito con uno strumento nuovo pe’ nostri paesi, col foraterra, che è un grosso trivello, provveduto presso l’amministrazione della “Famiglia Agricola” di Brescia. L’attecchimento riuscì straordinariamente bene; poche piantine fallirono, sebbene la stagione dell’impianto fosse motto avanzata.
L’avvenire È per verità nelle mani di Dio; ma un po’ anche nelle nostre; tanta che si dice “chi s’aiuta, Dio l’aiuta”. Quello che ho finora compiuto è già qualche cosa, ma poco davvero in confronto di quello che mi sta in mente ed è necessario di compiere. Innanzi tutto per la bonifica del pascolo occorre l’incendimento. Io mi impegnerò a indenizzare tutti i danni, che potessero avvenire per una eventuale fuga del fuoco, e ad eseguire quelle altre disposizioni che l’Ispettorato forestale e la Cattedra d'Agricoltura, trattandosi di pascolo, volesse però impormi, ne’ limiti della mia potenzialità finanziaria; ma senza l’aiuto del fuoco io dovrei deporre ogni pensiero di proseguire. La casa richiede ancora un muro di divisione nel piano terreno e nel superiore, parecchi serramenti, il soffitto, tavolo, sedie e attrezzi di cucina e di dormitorio. Tra la casa e la stalla dovrà trovar posto un locale per rimessa, ripostiglio, e scala d'accesso al piano superiore con ritirata. Sufficentemente ampia per almeno 100 capi di bovine per ora, e in posizione di poter essere allungata la stalla dovrà essere costruita in muratura, con pilastri e travature assai robusti per resistere alle nevicate ed ai venti. Si potrà approfittare delle lamiere zincate che ricoprono l’attuale tettoia provvedendo il rimanente. L’ampiezza sarà di metri 40 x 8. In fondo alla stalla, dalla parte opposta alla casa il fienile per una riserva abbondante di fieno, da raccogliere nelle vicinanze cintate della casa. La Concimaia in muratura coll’unico pozzo per le orine si troverà in fondo alla parte più bassa della stalla. Un Pollaio per dar uova agli uomini di servizio. Una Conigliera per dare ai medesimi un po’ di carne. Un Orto Cintato per fornire loro la verdura vanno costruiti d'intorno alla casa. Un Crotto o cantina internata nel monte per accogliere vino, birra, latte, anche pei turisti, e guadagno degli uomini di servizio, sarà formato poco discosto dalla casa. Nella valletta vicina e sotto alla casa stessa, colla leggera spesa di un argine sul lato inferiore, potrà essere formato un Laghetto di metri 50 di lunghezza, 20 di larghezza, 5 di profondità, raccogliendo l’acqua dell’abbeveratoio, ove allevare buoni pesci pei pastori. Sulla linea di confine dove è più facile lo sconfinamento delle bestie alpeggianti è necessaria una Siepe in vivo. A giusti intervalli e in diversi punti del pascolo si costruiranno 6 0 7 Abbeveratoi in muratura o cemento, raccogliendo le acque delle numerose sorgenti, onde possano essere bevute non troppo fredde e ben pulite. Colle piantine fornite dai vivai governativi si dovranno formare vari Meriggi o boschetti ove raccogliere le mandre di giorno, nelle ore più calde, e magari anche di notte per miglior concimazione, con attorno forti siepi di sicurezza ovvero steccati. Partendo dalla sinistra della “Baita” sopra il bosco dei faggi verso la fontana detta “Foritt” esiste un Esteso bosco improduttivo di ontani selvatici. È necessario abbrucciarlo ed estirparlo per ridurlo a pascolo eccellente crescendovi l’erba a dismisura e potendosi facilmente irrigare. Nella splendida conca, che si distende sopra e sotto la casa, passati gli anni dell’incendimento, potrà essere impiantato, a scopo industriale, Un vasto pometo, il cui prodotto troverebbe facile smercio, per la fabbricazione del sidro, nella vicina Svizzera. L’attachimento e la fruttificazione non mancherebbe, come lo dimostrano le piante di meli che naturalmente e spontaneamente crescono e frutticano. Pei cacciatori formerò 3 boschetti su diversi posizioni di tamarindi selvatici, ginepri e taxus baccate. Anche la strada potrebbe ridursi tutta careggiabile fino al paese colla spesa di circa 5 mila lire. La fiancheggerei, nel percorso della mia affittanza, con alberi di castano, onde ricavarne castagne da ridurre in farina per nutrimento de’ futuri vitelli d’allevo; al di sotto fino al paese con piante resinose alternate con tigli, a vantaggio dell’igiene e dell’apicoltura. Ogni anno saranno impiantate, come dal contratto d’affitto, dalle 3 alle 5 mila, la media cioè di 4 mila piantine, fornite dal governo. Anzi nello scorso 1912 avevo proposto al Comune di distruggere gli improduttivi boschi di noccioli, che sono ne’ confini della mia affittanza, impegnandomi a ridurli a pascolo alberato colle piantine governative. Ma la mia vantaggiosa dimanda fu respinta: si preferisce 5 oggi che 50 domani. La ripeterò, spero con esito migliore, anche pei tagli nuovi.
I vantaggi Quale immenso vantaggio pel Comune di Montegrino, se io, efficacemente appoggiato, giungerò al compimento dei miei progetti! Dopo 25 anni possederà un’alpe modello da affittare a ben alto prezzo, tanto da esentare i suoi contribuenti da ogni tassa. Sul terreno pubblico, oltre la casa, la stalla, gli abbeveratoi, la strada e le altre costruzioni prospereranno circa 100 mila piante di valore commerciale. Le sue casse si saranno rimpinguate con 12.500 lire. E l’industria della villeggiatura, pur tanto lucrosa ed ora appena nascente e poco favorita, troverà una potente attrattiva nella facile, sana e panoramica passeggiata al monte. Inoltre la benefica trasformazione operata sull’alto del monte, influirà spero efficacemente, a indurre le autorità comunali, provinciali, governative a mettere mano anche alla trasformazione della parte inferiore, almeno di quella che guarda il paese. È un appezzamento di parecchie centinaia di ettari di terreno eccellente, che ora a mala pena dà scarso e gramo pascolo a 40 0 50 mucche, mentre ridotto a pascolo alberato, potrebbe abbondantemente nutrirne un buon migliaio nel tempo della monticazione. II mio intendimento pratico é questo; coi mezzi e le opere sopra indicati migliorare il pascolo dei Bedroni, esercitandovi per qualche anno esclusivamente l’alpeggio; poi instaurarvi l’industria dell’allevamento, specialmente di torelli di razza sceltissima, promovendola anche tra i privati. Avrà buon esito la mia impresa? Profitterà l’esempio mio ai miei compatrioti? Me l’auguro e lo spero, anche per l’aiuto di chi può comprendermi, non tanto nell’interesse mio, che senza tanti pensieri vivrei più tranquillo, quanto nel pubblico interesse morale e civile. |
Abbiategrasso, 4 Dicembre 1913 |
[Enrico Fuselli] |