Baveno, 1872
|
Pallnza, 16 aprile 1927 |
«La gioventù verbanese attuale non ne ha conosciuto che il fantasma. Per ricordare Piero Vogini nella pienezza del suo maschio vigore e nella fosforescenza della sua inesauribile verve di narratore giocondo e mordace bisogna risalire di qualche lustro la vita dell’ambiente pallanzase! Gli ultimi anni della pietosa esistenza furono tristi, angosciosi. Il brillante causeur di un tempo si era ammutolito; il gagliardo campione di tutte le esuberanze giovanili si era afflosciato. Circolava per le vie cittadine tacito e solitario; portando in giro la nota funebre della propria irrimediabile sfinitezza. La morte lo ghermì che non aveva ancora 55 anni. Coetaneo e cugino per via materna del Podestà di Pallanza, in gioventù aveva frequentato col commendatore Pierino Erba la Scuola d’Ingegneria dell’Ateneo bolognese. Ma gli studi gravi e severi delle matematiche discipline non erano fatti per il suo temperamento provvisto bensì di indubbie attitudini ma anche di molta allegria e spensieratezza. L’ambiente goliardico e scapigliato della Bologna carducciana fecero di lui un viveur nel senso più simpatico e brillante della parola, spiritoso, amante dell’arte e del teatro, entusiasta del bello, appassionato raccoglitore di stampe e dipinti pregiati, collezionista e divulgatore impareggiabile di epigrammi gustosi e storielle piacevoli. La gioia della vita fu, per molti anni, interamente sua. Cuor d’oro ed eccellente carattere, Piero Vogino non conobbe inimicizie. Benché nato a Baveno, da madre intrese, egli si considerava un pallanzese di razza e come tale i concittadini lo ritenevano. Al Museo del Verbano ed alla Pro Loco diede con fervore il suo disinteressato entusiasmo di cultore del bello e di innamorato delle civiche fortune. Ma dove maggiormente rifulse il suo elevato spirito, che lascia in quanti lo conobbero ed amarono un ricordo incancellabile, fu nella intimità amicale. Per molti anni il teatro delle sue manifestazioni più interessanti era stato il Caffè Bolongaro, l’antico ambiente dai sinodali divani vellutati, signoreggiato dalla frequenza della migliore intellettualità pallanzese. Nel periodo aureo delle gestioni Roncoli e Badano, il vecchio Aragno della Capitale amministrativa del Verbano era diventato una specie di caravanserraglio in cui le macchiette ed i tipi più caratteristici della città si mettevano di buon grado in vetrina. Finora quel ritrovo e quegli habituès non hanno avuto il loro acquarellista. Può darsi però che in un non lontano domani l’abbiano. Oggi, noi ci limiteremo a ricordare fugacemente qualche inobliabile figura di quelle che furono più vicine e care al povero Amico scomparso. Prima di tutte, quella eccentrica e paradossale dell’ottimo ragionier Enrico Fattori che soleva frequentare la sala bolongariana in compagnia di una vispa cagnetta dal pelo fulvo addestrata alle più sorprendenti e buffe movenze. Il ragionier Fattori, nativo di Reggio Emilia, dove crediamo si sia ritirato a coltivare le ultime speranze dei suoi successi teatrali, era quello che comunemente si dice «un tipo burlesco». Alto, allampanato, con un pizzettino lanuginoso leggermente bipartito sul mento. Naso a salto, storto ed ingorgato nella respirazione. Andava famoso per i suoi calembours a getto continuo e per una inesauribile vena prolificatrice di drammi a forti tinte, le cui premières al Sociale di Pallanza costituivano un avvenimento cittadino. La Collana di Andrea, la Maria Rosa e la Follia di Fazio sono passate alla storia del teatro pallanzese. L’ultima ebbe persino l’onore di una edizione di lusso nella presse balzachiana di chi scrive queste note arroncigliate dalla fretta, e per certo tempo formò oggetto di particolare sollazzo agli sfoghi polemici dell’ingegner Lavatelli, allora assessore comunale, terribilmente permaloso delle innocue Punture di Ago. Ad ogni prima rappresentazione dei drammi fattoriani, il Sociale rigurgitava di schiamazzatori impertinenti e una fracassosa claque sapientemente organizzata dall’indimenticabile amico Vogini ne subissava il successo con chiassate indiavolate rotte da sibili acutissimi e dal lancio tempestoso di una grande quantità di torsoli sul palcoscenico. Durante una certa première l’audace claque voginiana giunse a tal segno che il disgraziato drammaturgo chiamato alla ribalta si vide improvvisamente saltellare davanti ai piedi una scimmietta addomesticata all'applauso e poi incoronare da un lauro calato dall'alto della scena. Nel Caffè Bolongaro di quel tempo (si va indietro di 15 e più anni) Piero Vogini era considerato il freddurista per antonomasia. I suoi motti arguti e salaci facevano scuola. Aveva poi una riserva inesauribile di aneddoti. Narratore gustoso e prodigo di barzellette piccanti, intorno a lui si faceva circolo. Il ragionier Fattori, il geometra Rossi, l’avvocato Erba, i fratelli Albasini, l’avvocato Pirola, Carletto Minioni, l’avvocato Ronchi, l’ingegner Lavatelli, il dottor Bolter, il chimico Romanzachini, il dottor Maderni erano dei più assidui. I compianti Carlo Lavatelli e Fattalini pure. Raccoglievano e rigettavano di rimbalzo le boutades voginiane come al giuoco della palla. Mi mancano, purtroppo, tempo e spazio per frugare nei ricordi ed addentrarmi in tanti particolari interessanti. Devo oggi limitarmi agli accenni. Anche l’Orfeo, il bel Varietà costruito e distrutto da Bruno Varini – un altro lacrimato ed indimenticabile compagnone di una primavera ormai lontana – aspetta ancora il suo ambientista. Piero Vogini rimarrà perennemente vivo nel buon ricordo degli innumerevoli amici del suo tempo perché Egli seppe farsi voler bene con una grande bontà d’animo e con l’onestà del suo carattere gioioso, squisitamente garbato e profondamente sincero». |
La Gazzetta, 27 aprile 1927 |
[Leonardo Parachini] |